L’infezione da virus dell’epatite Delta (HDV) è sostenuta da un piccolo virus a RNA “difettivo” che utilizza l’HBsAg come involucro esterno, l’antigene di superficie del virus HBV. Per questo
motivo, i soggetti HDV positivi sono anche HBV positivi. Si ritiene che nel mondo ci siano 10 milioni di soggetti affetti e che circa il 10% di coloro con epatite B abbiano anche la Delta, sebbene in tanti non ne siano consapevoli. In Italia si stima che siano affetti da HDV circa 10mila persone.
Il test di primo livello, la ricerca degli anticorpi contro l’HDV (anti-HDV) è disponibile nella
maggioranza dei centri di riferimento. In caso di positività il test di secondo livello è l’HDV-RNA (dosaggio quantitativo della viremia circolante) per la conferma diagnostica.
Dal punto di vista clinico l’epatite cronica Delta è la forma più aggressiva tra tutte le epatiti croniche virali: è caratterizzata da elevati tassi di scompenso epatico, rapida progressione a cirrosi ed epatocarcinoma e in molti pazienti il trapianto di fegato è l’unica possibilità. Negli ultimi tre decenni il trattamento antivirale utilizzato è stato l’interferone alfa, un farmaco che però mostra diversi limiti di efficacia e tollerabilità.
Recentemente è stato approvato da EMA il nuovo farmaco bulevirtide 2 mg, unico per meccanismo d’azione e somministrazione (iniezioni sottocutanee quotidiane), che ha dimostrato una eccellente risposta virologica e biochimica nell’ordine del 50% a 24 settimane di trattamento. Il farmaco
può essere utilizzato in casi particolari insieme ad interferone, ma anche in monoterapia nei pazienti che non possono essere sottoposti a terapia con interferone, che sono circa l’80% e soprattutto i pazienti con malattia cirrotica compensata avanzata. Gli studi sono tuttora in progress e al prossimo congresso dell’Associazione Europea per lo Studio del Fegato, che si svolgerà a giugno, verranno presentati i dati alla settimana 48 dello studio registrativo del farmaco in monoterapia.