Dottor Massimo Crippa
Responsabile Unità Operativa Complessa di Medicina
Presidio Ospedaliero Gardone Val Trompia
ASST Spedali Civili Brescia

L’ipertensione arteriosa è nota essere uno dei principali fattori di rischio per le malattie cardiovascolari ed è per tale motivo che rappresenta una sfida importante in ambito sanitario sia nei paesi economicamente sviluppati sia in quelli in via di sviluppo. In base a studi epidemiologici sappiamo che l’ipertensione arteriosa colpisce circa il 25 % della popolazione mondiale e che tale condizione rappresenta nel mondo occidentale la seconda causa di accesso per visita negli ambulatori di medicina generale. In Italia si stima che il 33 % degli uomini e il 31 % delle donne siano ipertesi e che il 19 % dei maschi e il 14 % delle femmine abbia una condizione di rischio aggiuntivo per la presenza di comorbidità quali obesità, dislipidemia, diabete o di danno a carico degli organi bersaglio quali cervello, cuore, vasi, occhi e reni.
L’obiettivo principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa non deve essere pertanto mirato solo alla normalizzazione dei valori pressori ma alla riduzione del rischio cardiovascolare globale del paziente iperteso.
Le Linee Guida raccomandano a questo proposito che la scelta dei farmaci da impiegare nel trattamento dell’ipertensione arteriosa sia basata sulle caratteristiche specifiche del singolo paziente, sul suo profilo di rischio cardiovascolare, sull’eventuale presenza di danno d’organo sub-clinico e/o di altre condizioni cliniche associate. Il noto effetto benefico dei farmaci antipertensivi sulla riduzione di eventi patologici quali ictus, infarto acuto del miocardio, scompenso cardiaco, insufficienza renale non è dovuto soltanto alla riduzione dei valori pressori di per sé ma anche agli effetti cosiddetti  “pleiotropici” delle varie molecole.
Nonostante sia ampiamente risaputo che mantenere nel tempo valori di pressione arteriosa clinica superiori anche di pochi mmHg a 140/90 aumenti il rischio di sviluppare in futuro eventi cardio-cerebrovascolari fatali e non, il controllo della pressione arteriosa sia in Italia che nel mondo è ampiamente insoddisfacente.
Le cause di questo fenomeno per cui la maggior parte dei pazienti ipertesi trattati farmacologicamente mantiene valori pressori superiori ai target desiderati sono molteplici. Un motivo importante è dato dal fatto che l’ipertensione arteriosa è una condizione clinica spesso asintomatica per cui l’assunzione di un farmaco, probabilmente per tutta la vita, difficilmente conduce a un miglioramento del benessere del paziente il quale perde nel tempo le motivazioni a proseguire nel trattamento consigliato. In molti casi la riduzione della pressione arteriosa, specialmente quando eccessiva, o la comparsa di effetti collaterali legati all’assunzione di un farmaco possono peggiorare la qualità di vita del paziente stesso ed indurlo ad autosospendersi la terapia. La mancata aderenza alla terapia rappresenta quindi uno dei principali problemi del mancato raggiungimento dei target pressori nel paziente iperteso e uno dei primi fattori cui deve pensare il medico di fronte ad un insuccesso terapeutico.

Aderenza terapeutica
L’aderenza al trattamento è generalmente definita come la misura in cui i pazienti assumono i farmaci così come prescritti dai loro medici. Per aderenza a un trattamento farmacologico s’intende il raggiungimento di due diversi obiettivi: la corretta assunzione secondo le modalità prescritte e la corretta implementazione del trattamento (farmaci, tempi, dosi, modalità di assunzione) nonché la persistenza (costanza e continuità nell’assunzione del farmaco prescritto).
Una bassa aderenza al trattamento è definita come copertura terapeutica inferiore al 40 % del periodo di osservazione mentre un’alta aderenza è definita come copertura terapeutica maggiore o uguale all’80 % del periodo di osservazione. La persistenza invece fa riferimento al tempo che intercorre tra l’inizio e l’interruzione di un trattamento farmacologico prescritto (1).
In uno studio italiano su una popolazione pari a 270.497 pazienti nuovi utilizzatori di farmaci antipertensivi con un’età mediana di 63 anni e una prevalenza di donne maggiore rispetto agli uomini (52.9 % vs 47.1 %), la percentuale di soggetti con alta e bassa aderenza al trattamento con antipertensivi è risultata rispettivamente del 23.8 % e del 32.9 %. L’aderenza più elevata è risultata nei pazienti di età tra i 65 e 74 anni (25 %) mentre quelli over 85 anni sono risultati meno aderenti (18.6 % quelli ad alta aderenza). E’ noto che gli ipertesi anziani sono spesso affetti da deficit cognitivi o da disabilità che rappresentano fattori altamente limitanti l’assunzione corretta dei farmaci prescritti, così come la presenza di terapie complesse per le numerose comorbidità osservate nei pazienti di età avanzata può influire negativamente sull’aderenza al trattamento.
I soggetti uomini con alta aderenza dello studio in questione sono risultati superiori rispetto ai soggetti ad alta aderenza donne (26.4 % vs 21.4 %). Già a 189 giorni dall’inizio della terapia la possibilità di interruzione del trattamento è risultata del 50 % ed esattamente 224 giorni per gli uomini e 162 per le donne (2).
Esistono diversi metodi per misurare l’aderenza, ciascuno con i suoi vantaggi e i suoi limiti ma finora nessuno di questi può essere considerato un gold standard (3).
Uno dei metodi per misurare l’aderenza è la scala MMAS (Morisky Medication Adherence Scale) di cui esiste una versione italiana validata (MMAS-8) (4).



Tollerabilità dei farmaci antipertensivi
Come osservato nella tabella soprastante non vengono però considerati possibili effetti secondari legati alla comparsa di eventi collaterali che per alcune molecole appartenenti alle diverse classi di farmaci antipertensivi possono diventare “invalidanti” per il paziente. Nei vari questionari proposti non vengono indagati in modo sistematico possibili effetti secondari quali ad esempio disturbi della sfera sessuale, difficoltà di concentrazione, insonnia che se presenti condurranno prima o poi alla sospensione del trattamento.
La tollerabilità di un farmaco può rappresentare quindi un fattore discriminante nella strategia terapeutica antipertensiva soprattutto alla luce dei risultati di numerosi studi epidemiologici che hanno mostrato come la comparsa di effetti collaterali rappresenti la prima causa assoluta di sospensione di un trattamento.
Dati derivanti dalla letteratura evidenziano come l’interruzione della terapia antipertensiva sia maggiore per farmaci appartenenti alla classe dei diuretici e dei beta-bloccanti e si riduca progressivamente con i calcioantagonisti, gli Ace-inibitori e i sartani.


Il medico, attraverso un’importante azione di “counselling” con il paziente, oltre a condividere i target di valori pressori da raggiungere, dovrebbe spiegare in modo dettagliato che la comparsa di eventi collaterali non deve portare a un’autosospensione del farmaco o alla sua riduzione di dosaggio come purtroppo si osserva con frequenza nella pratica clinica quotidiana. Esistono alcuni casi, come per esempio nel periodo estivo, in cui a causa del caldo eccessivo e del suo noto effetto di vasodilatazione, si rende necessario, sempre e solo su suggerimento del medico, modificare il dosaggio di un farmaco di fronte ad un’eccessiva riduzione dei valori di pressione arteriosa. Le ultime Linee Guida Europee dell’ipertensione arteriosa hanno peraltro sottolineato come un’eccessiva riduzione dei valori pressori, in particolare quelli sistolici (< 120 mmHg), possa determinare addirittura un aumento del rischio cardiovascolare del paziente iperteso oltre che del rischio, specie per i pazienti più anziani, di incorrere in pericolose cadute a terra. Questo è anche il motivo per cui nei pazienti fragili e in quelli di età maggiore di 80 anni le Linee Guida stesse raccomandano di iniziare il trattamento farmacologico con una monoterapia anziché una terapia di combinazione come suggerito per altre categorie di ipertesi (6).
Sempre nel periodo estivo, molti ipertesi, specialmente donne che assumono farmaci ad azione vasodilatatrice diretta come i calcioantagonisti diidropiridinici, interrompono spontaneamente la terapia per la comparsa di marcati edemi in sede perimalleolare. A questo proposito va ricordato che anche all’interno di tale classe farmacologica esistono differenze di aderenza alla terapia legate proprio alla miglior tollerabilità di una molecola rispetto a un’altra.
I calcioantagonisti diidropiridinici di ultima generazione e con caratteristiche lipofile ad esempio, consentono, grazie alla loro lunga durata d’azione nelle 24 ore, di ottenere con un’unica somministrazione giornaliera un soddisfacente controllo della pressione arteriosa nonché una riduzione degli eventi avversi farmaco-correlati noti a questa classe di antipertensivi quali appunto l’edema periferico, la cefalea e la tachicardia riflessa. Studi metanalitici hanno evidenziato come il rischio di edema periferico con calcioantagonisti diidropiridinici lipofili sia stato del 57% inferiore rispetto ai tradizionali diidropiridinici (7).
Talvolta, a maggior ragione se in presenza di valori non normalizzati di pressione arteriosa, per ridurre gli edemi periferici da calcioantagonista può essere utile ricorrere all’associazione con farmaci ad azione bloccante il sistema renina angiotensina. L’aggiunta di farmaci quali Ace-inibitori o sartani, attraverso una venulodilatazione mediata dal blocco dell’angiotensina, riduce la pressione idrostatica a livello capillare aumentata invece dai calcioantagonisti che agiscono prevalentemente vasodilatando il tratto arteriolare. Il calo della pressione idrostatica a livello capillare si traduce di fatto in una netta riduzione dell’edema interstiziale come si evince dai risultati di numerosi trials clinici che hanno impiegato queste associazioni di farmaci antipertensivi.


Conclusioni
L’aderenza del paziente al trattamento farmacologico è un elemento di fondamentale importanza nel successo dell’intervento terapeutico, soprattutto nelle condizioni croniche e spesso asintomatiche come l’ipertensione arteriosa. La scarsa aderenza al trattamento antipertensivo può avere effetti molto gravi anche in termini di morbilità e mortalità nel breve come nel lungo termine.
I fattori legati alla scarsa aderenza sono molteplici e non possono tuttavia essere attribuiti solo al paziente, ma anche al sistema sanitario, all’ambiente e spesso all’inerzia del medico.
Riconoscere e correggere tali fattori può rappresentare la nuova sfida del futuro per ottenere considerevoli benefici non solo clinici ma anche economici.

Bibliografia
1) Italian Journal of public health – 2019, Volume 8, Number 6
2) AIFA, OSMED VV. AA.
3) Ruud, P., In search of the gold standard for compliance measurement. Arch, 1979. 139 (6): p. 627-8 Intern Med
4) Morisky, D.E., L.W.. Green, and D.M. Levine, Concurrent and predictive validity of a self-reported measure of medication adherence. Med Care, 1986. 24 (1): p. 67-74
5) Corrao G, Zambon A, Parodi A, et al. Discontinuation of and changes in drug therapy for hypertension among newlytreated patients: a population-based study in Italy. J Hypertens 2008;26:819-24
6) 2018 ESC/ESH Guidelines for the management of arterial hypertension. European Heart Journal, Volume 39, Issue 33, 01 September 2018, Pages 3021–3104
7) Journal of Hypertension: July 2011 – Volume 29- Issue 7 – p 1270-1280