Il 2024 avrebbe dovuto segnare un passo avanti nel garantire i Livelli essenziali di assistenza (Lea), invece ci consegna una fotografia in chiaroscuro: da un lato, lo Stato rafforza il sistema di monitoraggio e introduce indicatori più sofisticati per valutare l'efficacia dell’assistenza sanitaria nelle Regioni. Dall’altro, i dati sull’accesso alle cure raccontano una realtà che peggiora.
Tra i nuovi strumenti introdotti dal Nuovo sistema di garanzia (Nsg), che valuta le performance regionali nell’erogazione dei Lea, spiccano due novità “core”: la misurazione dell’aderenza alle terapie nello scompenso cardiaco, e l’indicatore sulla rinuncia alle cure, che rileva i cittadini costretti a rinunciare a visite o esami per ragioni economiche o organizzative, come liste d’attesa insostenibili.
La richiesta di questi nuovi indicatori arriva anche da Salutequità, che ha portato avanti una lunga attività di studio e advocacy con il contributo di professionisti sanitari, associazioni di pazienti e società scientifiche. Tuttavia, i risultati parlano da soli: quasi un italiano su dieci (9,9%) ha rinunciato a visite o esami specialistici nell’ultimo anno, secondo l’Istat. Le cause? Liste d’attesa (6,8%) e difficoltà economiche (5,3%). Un dato aggravato dal ricorso crescente alla sanità privata: dal 19,9% nel 2023 al 23,9% nel 2024.
Un paradosso misurabile. Mentre la rinuncia alle cure diventa finalmente un indicatore “misurabile”, il fenomeno cresce in modo drammatico. È la prova che misurare non basta, se non è accompagnato da azioni concrete. A sottolinearlo è il presidente di Salutequità, Tonino Aceti, che punta il dito anche sulla mancata pubblicazione completa dei dati del Nsg 2023: > “Verificare l’assistenza sanitaria è fondamentale, ma non serve se non è seguito da interventi puntuali e tempestivi, specie dove i diritti sanitari non sono garantiti”.
Il quadro territoriale, inoltre, si complica: mentre si riduce il divario tra Nord e Sud, non lo fa perché il Mezzogiorno migliora, ma perché peggiora l’accesso anche nelle Regioni settentrionali. A pagare il prezzo più alto sono le persone tra i 45 e i 54 anni (13,4%), gli over 75, e in modo più marcato le donne. Anche il livello di istruzione incide: chi ha un basso titolo di studio rinuncia di più, soprattutto per ragioni economiche.
I Lea sotto osservazione, ma l'equità resta fragile. Il rafforzamento del Nsg è comunque un passo importante. Oltre ai nuovi indicatori core, la Legge di Bilancio 2025 prevede un decreto integrativo del Ministero della Salute entro giugno, per estendere la valutazione anche a profili economici, gestionali e patrimoniali. Il Ddl “Prestazioni sanitarie” e l’Atto di indirizzo ministeriale per il 2025 spingono nella stessa direzione: una verifica più dinamica, capillare, e non politicizzata, aperta anche alle misure di “umanizzazione delle cure”, al monitoraggio dei Prems e Proms (strumenti per rilevare l’esperienza e l’outcome dei pazienti), al personale sanitario, alle cronicità, alla qualità dell’Assistenza Domiciliare, alla telemedicina e all’uso equo delle tecnologie. Ma secondo Aceti, serve una riforma culturale del monitoraggio stesso:  “Il Nsg dovrebbe fotografare anche la realtà sub-regionale, essere più trasparente, aperto agli stakeholder e non bloccato ogni volta da decreti o intese. L’attività di valutazione va sottratta alla politica e affidata alla tecnica”.
Dalla sorveglianza all’azione. In conclusione, Salutequità rilancia una richiesta precisa: lo Stato, oltre a monitorare, deve agire, anche esercitando poteri sostitutivi sulle Regioni che sistematicamente non garantiscono i Lea. È un principio già previsto dal Patto per la Salute 2019–2021, ma finora disatteso.
Nel frattempo, l’associazione ha prodotto una mini-guida ragionata per spiegare in modo semplice e accessibile come funziona il Nsg, quali sono i diritti in gioco e come ciascun cittadino può monitorare, capire e rivendicare la qualità dell’assistenza. Perché i numeri servono, ma senza le persone dentro, nessun indicatore potrà mai garantire davvero il diritto alla salute.