Il monito dell’Oms. Durante la conferenza “Mastering Immunity 2025”, tenutasi a Singapore, il direttore generale dell’Oms , Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha lanciato un messaggio chiaro e inquietante: la prossima pandemia potrebbe scoppiare ovunque e in qualsiasi momento. Non è detto che sarà causata da un virus già noto come l’influenza aviaria o l’Ebola. Potrebbe trattarsi di qualcosa di completamente nuovo, ancora sconosciuto alla scienza: il cosiddetto 'Patogeno X'.
Secondo Ghebreyesus, non dobbiamo chiederci se emergerà, ma se saremo pronti quando accadrà. Per questo l’Oms sta promuovendo una rete globale di ricerca aperta e collaborativa, con l’obiettivo di studiare prototipi di patogeni e comprendere meglio il comportamento di intere famiglie virali. L’idea è quella di anticipare le mosse di un nemico invisibile, sviluppando contromisure mediche e vaccini prima che sia troppo tardi.
Un esempio concreto? Il programma per la tecnologia mRNA avviato in Sud Africa, che oggi condivide competenze e strumenti con una rete di 15 Paesi partner. È una dimostrazione che la preparazione non è solo una questione tecnologica, ma anche di equità e cooperazione internazionale.
Le priorità indicate dall’Oms
⦁ Espandere la ricerca su prototipi di patogeni
⦁ Rafforzare la collaborazione scientifica internazionale
⦁ Migliorare l’accesso equo a vaccini e contromisure mediche
⦁ Sostenere l’Accordo Oms sulle pandemie, adottato nel 2025
Lo studio del Jrc: mappa globale del rischio zoonotico. Il Joint research centre (Jrc), servizio scientifico della Commissione Europea, ha pubblicato su Science Advances una mappa delle aree più vulnerabili alle epidemie zoonotiche. Lo studio combina dati satellitari, modelli climatici e algoritmi predittivi per identificare le zone a rischio. Il Jrc fornisce consulenza scientifica indipendente per supportare le politiche dell’Ue in ambiti strategici come salute pubblica, ambiente, sicurezza alimentare e innovazione. Il suo lavoro è uno strumento operativo per la prevenzione e la pianificazione sanitaria.
Secondo le simulazioni condotte dal Jrc, circa il 9,3% della superficie terrestre presenta un livello di rischio elevato o molto elevato per l’insorgenza di epidemie zoonotiche. In altre parole, quasi un decimo del pianeta è potenzialmente esposto a focolai causati dal salto di specie di virus e batteri dagli animali all’uomo.
Le aree geografiche più vulnerabili si concentrano in alcune regioni del Sud globale: l’America Latina guida la classifica con oltre un quarto della sua superficie a rischio (27,1%), seguita da Oceania (18,6%), Asia (6,9%) e Africa (5,2%). In confronto, Europa e Nord America mostrano percentuali molto più contenute, rispettivamente dello 0,2% e dello 0,08%.
Ma il dato più significativo riguarda le persone: circa il 3% della popolazione mondiale vive già in territori classificati come ad alto rischio. Si tratta di milioni di individui che abitano in zone dove le condizioni ambientali, sociali e sanitarie potrebbero favorire l’emergere di nuovi patogeni. A contribuire a questa vulnerabilità non è solo la posizione geografica, ma un insieme di fattori interconnessi che agiscono come veri e propri acceleratori del rischio. Tra questi, la densità abitativa rappresenta il moltiplicatore più potente: più persone vivono concentrate in aree urbane o periurbane, maggiore è la probabilità che un agente patogeno trovi le condizioni ideali per diffondersi rapidamente.
Accanto alla pressione demografica, lo studio evidenzia il ruolo cruciale della deforestazione e dei cambiamenti d’uso del suolo, che portano l’uomo a invadere habitat naturali, aumentando il contatto diretto con specie selvatiche potenzialmente portatrici di virus. L’urbanizzazione incontrollata e gli allevamenti intensivi contribuiscono ulteriormente a creare ambienti favorevoli alla trasmissione zoonotica.
Infine, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità agiscono come fattori sistemici: alterano gli equilibri ecologici, modificano la distribuzione delle specie e riducono le barriere naturali che normalmente frenano la diffusione di agenti infettivi. In sintesi, è l’interazione tra uomo e ambiente – sempre più intensa e spesso non sostenibile – a rendere il pianeta più esposto a nuove minacce epidemiche.
Medicina territoriale: presidio strategico per la prevenzione. In un contesto globale segnato da un rischio crescente di nuove epidemie, la medicina territoriale si conferma come il primo e più importante baluardo contro la diffusione di patogeni emergenti. I medici di famiglia, i pediatri, gli operatori delle Asl e tutti i professionisti della sanità pubblica svolgono un ruolo cruciale, non solo nella gestione clinica quotidiana, ma anche nella sorveglianza epidemiologica e nella costruzione di una rete di protezione sanitaria diffusa.
La capacità di intercettare precocemente segnali clinici sospetti, attraverso il monitoraggio sindromico e la segnalazione tempestiva di casi anomali, è una competenza che va rafforzata e valorizzata. In questo senso, la collaborazione con i Dipartimenti di Prevenzione e con le autorità sanitarie locali diventa fondamentale per garantire una risposta coordinata e tempestiva.
Ma la preparazione non si esaurisce nella vigilanza. È necessario investire nella formazione continua degli operatori, affinché siano aggiornati sulle zoonosi emergenti e pronti ad affrontare scenari di outbreak con protocolli chiari e simulazioni realistiche. La conoscenza deve essere dinamica, condivisa e orientata all’azione.
Un altro pilastro è la collaborazione interdisciplinare. L’approccio One Health, che integra medicina umana, veterinaria, ecologia e climatologia, non è più un’opzione teorica, ma una necessità operativa. Solo attraverso l’incrocio di dati clinici, ambientali e territoriali è possibile comprendere e anticipare le dinamiche di diffusione dei nuovi patogeni.
Infine, non va sottovalutato il ruolo comunicativo e sociale della medicina territoriale. Educare la popolazione, contrastare la disinformazione e promuovere la fiducia nella medicina preventiva sono azioni che rafforzano la resilienza delle comunità. In tempi di incertezza, la voce del medico sul territorio può fare la differenza tra allarme e consapevolezza.
Prepararsi oggi per proteggere il domani. La preparedness non è un concetto astratto né una formula da manuale: è una pratica concreta, che si costruisce giorno dopo giorno attraverso scelte cliniche, organizzative e politiche. Per essere davvero efficace, deve coinvolgere attivamente i medici del territorio, che rappresentano il primo snodo della rete sanitaria e il punto di riferimento per le comunità locali.
Essere preparati significa rafforzare le strutture di medicina preventiva, rendendole capaci di intercettare precocemente segnali di rischio e di attivare risposte rapide e coordinate. Significa anche superare le barriere tra sanità pubblica e medicina generale, favorendo un’integrazione operativa che permetta di condividere dati, competenze e strategie.
Un altro tassello fondamentale è la promozione della ricerca locale e della sorveglianza ambientale, strumenti indispensabili per comprendere le dinamiche territoriali e anticipare l’emergere di nuovi patogeni. In questo senso, le iniziative europee come Hera (Health emergency preparedness and response authority) offrono un quadro di riferimento utile per orientare le politiche nazionali e regionali verso una maggiore resilienza sanitaria.
Prepararsi non significa aspettare il prossimo allarme, ma costruire oggi le condizioni per affrontarlo con lucidità, competenza e coesione. E in questo percorso, la medicina territoriale ha un ruolo insostituibile.
Anna Sgritto