Come reagisce il nostro sistema immunitario alle invasioni dei patogeni e qual è l’importanza della risposta cellulo-mediata a patologie anche estremamente diverse tra loro, come la tubercolosi e il COVID? Questi gli argomenti del workshop promosso da Oxford Immunotec, azienda di PerkinElmer, e leader nella produzione e commercializzazione di test diagnostici basati su cellule T, in occasione del XLIX Congresso Nazionale AMCLI (Associazione Microbiologi Clinici Italiani) in corso a Rimini. Un momento di confronto per fornire non solo una panoramica aggiornata sull’innovazione tecnologica nella diagnostica, ma anche per chiarire il ruolo di specifiche popolazioni cellulari quali i linfociti T, veri e propri responsabili della memoria immunologica. La diagnostica basata sulle cellule T è anche uno strumento efficace di identificazione che incide nella strategia terapeutica da attuare. Come nel caso dell’infezione da Citomegalovirus (CMV) che, anche in Italia, è presente a livello endemico in circa l’83% della popolazione generale e fino all’86% nella popolazione femminile. Eppure, nonostante quest’infezione sia asintomatica nei soggetti immunocompetenti, ovvero nelle persone sane, per soggetti immunodepressi, come i pazienti trapiantati che vivono una sorta di “immunosoppressione controllata”, il CMV diventa una delle più comuni complicanze infettive, oltre che causa di aumentata morbilità e mortalità. "In questo caso, le strategie terapeutiche impongono l’utilizzo di farmaci antivirali – commenta il dott. Oscar Matteo Gagliardi, Università di Milano - Scuola di Farmacologia e Tossicologia Clinica – ma onde evitarne un utilizzo indiscriminato su tutti i soggetti trapiantati, grazie a specifici test come il DNaemia circolante che permette di capire quando c’è la riattivazione, si può arrivare a definire quali pazienti ne hanno effettivamente bisogno. In questo modo si riduce il rischio di effetti avversi legati all’utilizzo dei farmaci antivirali usati nella terapia del CMV, come la mielosoppressione che, paradossalmente, espone i pazienti trapiantati ad un maggior rischio infettivo". Riuscendo a identificare se il soggetto che deve subire un trapianto ha una risposta di tipo T elevata, ovvero che presenta una protezione adeguata rispetto all’evenienza di contrare il Citomegalovirus, si evitano le analisi sierologiche seriate nel tempo e la somministrazione del farmaco antivirale. "La diagnostica a cellule T potrà essere applicata nel prossimo futuro a tutte le patologie in cui queste cellule hanno un ruolo – conclude il Dott. Gagliardi – a cominciare dalle patologie autoimmuni, come ad esempio il diabete, la celiachia, il lupus. Andando a valutare la risposta cellulare e come intervenire, come si è iniziato a fare in ambito oncologico con le CAR-T, sviluppando terapie innovative personalizzate che vadano a desensibilizzare le cellule T".