I numerosi studi dedicati al COVID-19 si sono fondamentalmente concentrati sulle caratteristiche epidemiologiche, cliniche e radiologiche dell’infezione. L’osservazione dei pazienti guariti ha invece sino ad ora raccolto scarsa attenzione: in merito a questo una lettera pubblicata di recente su Jama solleva alcuni aspetti per certi versi inquietanti, in un momento in cui i casi di infezione al di fuori della Cina si moltiplicano.

In un articolo apparso su Americal Journal of Gastroenterology si legge che i sintomi digestivi sono comuni nei pazienti con COVID-19. I pazienti che presentano questo tipo di sintomatologia hanno un lasso di tempo più prolungato tra l’esordio del quadro clinico e l’ammissione in ospedale e inoltre la loro prognosi risultava peggiore. I medici dovrebbero essere consci che i sintomi come la diarrea possono essere una presentazione del COVID-19 e che potrebbe essere necessaria una maggiore attenzione a questi pazienti.

L’appello dell’Associazione Medici Diabetologi e della Società Italiana di Diabetologia alle persone con diabete: attenersi alle “5 regole dei giorni di malattia”, cioè le norme precauzionali da seguire in caso di qualsiasi altra patologia concomitante, per non compromettere il controllo glicemico.

Una nuova ricerca del WORLD Policy Analysis Center della UCLA Fielding School of Public Health (WORLD) ha dimostrato che nei Paesi in cui vi è una elevata parità di genere si registra anche una longevità più elevata, sia negli uomini che nelle donne, rispetto a quanto avviene nei Paesi dove vige maggiore disparità tra i sessi.

Includere la storia dei viaggi nella cartella clinica del paziente potrebbe aiutare a rallentare la diffusione del coronavirus e i futuri focolai infettivi, affermano due esperti in un lavoro pubblicato di recente su Annals of Internal Medicine. L'aggiunta della cronologia dei viaggi alle informazioni di routine come temperatura, pressione arteriosa, frequenza cardiaca e frequenza respiratoria nelle cartelle cliniche elettroniche dei pazienti permetterebbe infatti di collocare i sintomi di un paziente nel corretto contesto ed essere di aiuto per gli operatori sanitari.

Uno studio durato più di 16 anni, ideato e condotto dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, sostenuto dal costante supporto della Fondazione Italo Monzino, ha dimostrato che l’incidenza della demenza (i nuovi casi in un determinato periodo) continua a crescere anche nelle età più avanzate, quelle per cui i dati esistenti erano assai scarsi o assenti: dall’8% negli ultraottantenni, al 14% negli ultranovantenni, al 22% nei centenari, fino al 48% tra le persone di 105 o più anni di età.